Un incidente stradale, sul lavoro o una caduta accidentale possono provocare danni enormi, anche, purtroppo essere fatali. Medici ed infermieri in prima linea lo sanno bene, quando si apre la porta dell’ambulanza e la barella corre dentro il pronto soccorso. C’è un paziente e c’è la sua ferita: provocata da una forza scaricata accidentalmente sul suo corpo. Accidentalmente è il concetto chiave, perché è una lesione non voluta. Esplode una vertebra, si rompe un femore, uno squarcio ed il sangue…. Ma quando si apre l’ambulanza e c’è una ferita di guerra è diverso: I danni sulle ossa e sui tessuti sono incomparabilmente peggiori, perché provocati da proiettili o schegge di bombe, volontariamente studiate e costruite per offendere il corpo umano. Le fratture delle ossa sono veri e propri scoppi, l’anatomia muscolare sovvertita, la stessa cute dilaniata. Ieri sera nel visitare quei pazienti appena arrivati all’Istituto Rizzoli: un’anziana signora, un giovane, un bambino e la sua mamma, ho visto la volontà di uccidere delle armi che li hanno feriti. Lesioni che ho curato in Eritrea, in Camerun ed al Rizzoli quando sono arrivati altri profughi, cui non mi sono mai abituato. Fa sempre male vederle. Il percorso di cura non sarà affatto facile. L’assistenza è resa complessa non solo dalle ferite estese ma anche dalla barriera linguistica, ma i nostri ausiliari ed infermieri sono tosti! Ci vorranno molti interventi. Ortopedia, chirurgia plastica, riabilitazione. Un percorso lungo per provare se non a cancellare quanto meno a ridurre gli esiti di queste spaventose lesioni. In questi sessantasei giorni di guerra i giornali e la tv ci hanno costantemente aggiornati, decine, poi centinaia, infine migliaia di morti e feriti. Notizie che creano “assuefazione per quei morti” ed aumentano la distanza tra chi soffre e noi, come ha spiegato mirabilmente Claudio Magris nell’editoriale del 4/6/2011 sul Corriere della Sera, salvo poi l’amara realtà di trovarseli davanti, in carne ed ossa, come pazienti da curare.

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